Già i nazisti avevano capito che si sarebbe giocato tutto con la memoria.
“In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi”. Così le SS ammonivano i prigionieri, ricorda Simon Wiesenthal in Gli assassini sono tra noi.
“Nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà . Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme a voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti”. Mangiare, tornare a casa, raccontare: questi i sogni più ricorrenti nelle notti dei prigionieri. Il loro incubo più tremendo, però, era vedere il parente, l’amico, la persona cara distogliere lo sguardo. Non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Tanto enorme è quanto avvenuto dietro i cancelli dei lager che chi se li è lasciati alle spalle – le vittime, spesso, non meno degli oppressori – vi ha reagito cercando l’oblio.
“Chi è stato ferito rimuove il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa”, scrive Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati. Da anni il 27 gennaio (anniversario della liberazione di Auschwitz) è la Giornata della Memoria, un appuntamento fisso con il ricordo delle tante vittime che le ideologie totalitarie hanno causato. Lasciamo dunque che a raccontare siano le pagine dei libri.